venerdì 7 novembre 2014

Past, present, future. Da chi traiamo ispirazione


Rock americano? Sterminato, infinito. American Traditional Rock? Beh, insomma, parliamone….
Potrebbe iniziare così un dialogo tra appassionati di musica o anche tra musicisti. Del rock americano sappiamo tutto, una miriade di band più o meno famose, un incontro quasi folle di generi e di stili. Se però si chiede cosa è l’American Traditional Rock la nebbia si fa più spessa. Si dirà: “è il rock americano della tradizione”…Lost in translation, risponderemmo noi degli Americana, citando un film che ci è rimasto nel cuore (anche se ambientato a Tokyo).

Tradizione d’altronde ha tanti significati. Può sembrare un termine che rimanda allo stantìo, al vecchio, oppure è un valore aggiunto, un ritorno alle origini. Facciamo chiarezza, se possibile, partendo dalle origini.
La storia della Svolta di Bob Dylan è abbastanza conosciuta. Il buon Bob nasce come folkman, chitarra acustica in braccio e storie  cantate di 3 o 4 minuti, piccoli romanzi fatti canzone. Un talento cristallino, una profondità devastante, un simbolo vivente già fin dai primi dischi. E’ il 1965, e cinque giorni prima di salire sul palco Newport Folk Festival, Dylan da alle stampe Like a rolling stone, un brano bellissimo ed inequivocabilmente elettrico. La leggenda vuole che, nel proporre il suo set dal vivo, Dylan si presenti con una scaletta totalmente elettrica, ricevendo una bordata di fischi ed insulti dal pubblico arrivato invece per adorare il suo menestrello folk. Oggi grazie a numerose testimonianze si è potuto fare chiarezza sull’episodio e scoprire così che i fischi furono al termine dell’esibizione per chiedere a gran voce di tornare sul palco.

Bob Dylan & the Band


In ogni caso, quale che sia la versione, il Rock americano della tradizione nasce da lì. Successivamente Bob utilizzerà quale backing band un’arma da guerra infallibile e talentuosa, The Band: era il 1966. A comporne la line up erano musicisti quali Robbie Robertson (voce e chitarra), il leggendario Levon Helm alla batteria, Rick Danko al basso e Garth Hudson come multistrumentista. Nasce un genere, ed è irrinunciabile andarsi a riascoltare The last waltz, disco registrato senza Dylan ma pieno di ispirazione, per capire di cosa stiamo parlando.

Non c’è bisogno di dire che Dylan è stato il padre e l’ispiratore di un intero filone musicale. Volendo estrapolare alcuni nomi vengono in mente i Greateful Dead e The Allman Brothers Band, nomi di spicco del rock americano, band che in un modo o nell’altro hanno avuto un’onda lunga sino alla fine degli anni ’80.
Poi sono arrivati i Counting Crows. Era il 14 Settembre del 1993 quando sugli scaffali dei negozi di dischi americani trova posto August and everything after. I ragazzi pagano tutto il tributo alla tradizione, mettendo in primi piano i propri riferimenti: Dylan, i Greateful Dead ed i Byrds su tutti. Si presentano in cinque, ma già dai primi live e nei primi video ufficiali a supporto del singolo Mr. Jones, una canzone epocale, la formazione rientra nel pieno della tradizione. Oltre all’ugola d’oro (tormentata, letteraria ed evocativa) di Adam Duritz, ci sono le chitarre di Dan Vickrey e David Bryson, il basso di Matt Malley, l’organo di Charlie Gillingham (vero motore della band) e Steve Bowman alla batteria. Un disco che sembra uscito da un canzoniere americano, pieno di storie e di suoni già conosciuti, influenzati dalla produzione vintage di T-Bone Burnett.

Counting Crows


Da quel disco il rock americano è tornato nelle orecchie degli appassionati e nelle classifiche di vendita, anche se qualcuno di entusiasticamente retrò in circolazione già c’era.
Luogo: Atlanta, nella torrida Georgia, campi di cotone e foreste. Nel 1990 una band di personaggi dai capelli lunghi, dalle chitarre vintage e dall’aspetto seventies danno alle stampe un disco d’altri tempi, a cavallo tra gli Allman Brothers e gli Stones.
Nome: Black Crowes. Titolo: Shake your money maker. Curiosamente, anche loro ufficialmente figurano in cinque, ma in realtà sin nei primi live e nei video salgono in sei sul palco, e la formazione è sempre la stessa: voce, due chitarre, tastiere, basso e batteria. Il disco è una bomba, molto più blues oriented dell’esordio dei Counting Crows ma altrettanto evocativo. Le canzoni sono cristalline, diamanti grezzi con chorus potenti ed una voce, quella di Chris Robinson, che così bella non si sentiva dai tempi di Robert Plant, se possibile con qualche sfumatura in più.

The Black Crowes


1996, San Francisco. Jakob Dylan porta un cognome troppo invadente per il music business, anche se il disco di esordio dei suoi Wallflowers è di una bellezza gentile, ma non riesce a piazzare nessuna canzone sopra la media, e la casa discografia li ha già scaricati. Gli Wallflowers (questo il nome della band) hanno però una serie di canzoni valide per le mani e per trovare il suono giusto chiedono a T-Bone Burnett, sempre lui, di sedersi dietro la consolle. D’altronde, condividono con i Counting Crows non solo la città, ma anche il suono, la concezione musicale, le ispirazioni (per Adam Duritz Bob Dylan è la prima fonte a cui ispirarsi, per Jakob è il padre…). Bringing down the horse diventa un successo inatteso, ma logico se si pensa alla perfezione delle canzoni. I fattori di questa bellezza sono la tecnica di Rami Jaffee all’organo (sempre presente in primo piano), la chitarra solista di Michael Ward (vero e proprio specialista del genere) e le liriche di Dylan, profonde e narrative.



Wallflowers


A fare da padre ed ispirazione a queste band c’è anche un tizio dalla Florida, Tom Petty,  che calca le scene dagli anni ’70, e che negli anni ha affinato il suo sound verso un ritorno alla tradizione grazie alla macchina da guerra che lo accompagna sui palchi e nei dischi: i grandissimi Heartbreakers. Dentro gli Heartbreakers versione recente ci sono alcuni tra i più grandi musicisti americani, in particolare Mike Campbell alla chitarra solista, Benmont Tench alle tastiere e Steve Ferrone alla batteria. Per essere chiari, Benmont Tench ha suonato per Bob Dylan, Don Henley (Eagles), Sheryl Crow e Stevie Nicks (per dirne alcuni dei tanti).    
Con Full Moon Fever in particolare Tom Petty pesca a piene mani nella tradizione, con un lotto di canzoni tutte sopra la media. Free Fallin’, I won’t back down e soprattutto Love is a long road Petty assesta un terzetto micidiale proprio all’inizio del disco, creando un classico moderno.

Americana, since 2012

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