Rock americano? Sterminato, infinito. American Traditional Rock? Beh, insomma,
parliamone….
Potrebbe iniziare così un dialogo tra appassionati di musica
o anche tra musicisti. Del rock americano sappiamo tutto, una miriade di band
più o meno famose, un incontro quasi folle di generi e di stili. Se però si
chiede cosa è l’American Traditional Rock la nebbia si fa più spessa. Si dirà:
“è il rock americano della tradizione”…Lost in translation, risponderemmo noi
degli Americana, citando un film che ci è rimasto nel cuore (anche se
ambientato a Tokyo).
Tradizione d’altronde ha tanti significati. Può sembrare un
termine che rimanda allo stantìo, al vecchio, oppure è un valore aggiunto, un
ritorno alle origini. Facciamo chiarezza, se possibile, partendo dalle origini.
La storia della Svolta di Bob Dylan è abbastanza conosciuta.
Il buon Bob nasce come folkman, chitarra acustica in braccio e storie cantate di 3 o 4 minuti, piccoli romanzi
fatti canzone. Un talento cristallino, una profondità devastante, un simbolo
vivente già fin dai primi dischi. E’ il 1965, e cinque giorni prima di salire
sul palco Newport Folk Festival, Dylan da alle stampe Like a rolling stone,
un brano bellissimo ed inequivocabilmente elettrico. La leggenda vuole che, nel
proporre il suo set dal vivo, Dylan si presenti con una scaletta totalmente
elettrica, ricevendo una bordata di fischi ed insulti dal pubblico arrivato
invece per adorare il suo menestrello folk. Oggi grazie a numerose
testimonianze si è potuto fare chiarezza sull’episodio e scoprire così che i
fischi furono al termine dell’esibizione per chiedere a gran voce di tornare
sul palco.
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Bob Dylan & the Band |
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In ogni caso, quale che sia la versione, il Rock americano
della tradizione nasce da lì. Successivamente Bob utilizzerà quale backing band
un’arma da guerra infallibile e talentuosa, The Band: era il 1966. A comporne
la line up erano musicisti quali Robbie Robertson (voce e chitarra), il
leggendario Levon Helm alla batteria, Rick Danko al basso e Garth Hudson come
multistrumentista. Nasce un genere, ed è irrinunciabile andarsi a riascoltare The
last waltz, disco registrato senza Dylan ma pieno di ispirazione, per
capire di cosa stiamo parlando.
Non c’è bisogno di dire che Dylan è stato il padre e
l’ispiratore di un intero filone musicale. Volendo estrapolare alcuni nomi
vengono in mente i Greateful Dead e The Allman Brothers Band, nomi di spicco
del rock americano, band che in un modo o nell’altro hanno avuto un’onda lunga
sino alla fine degli anni ’80.
Poi sono arrivati i Counting Crows. Era il 14 Settembre del
1993 quando sugli scaffali dei negozi di dischi americani trova posto August
and everything after. I ragazzi pagano tutto il tributo alla tradizione,
mettendo in primi piano i propri riferimenti: Dylan, i Greateful Dead ed i
Byrds su tutti. Si presentano in cinque, ma già dai primi live e nei primi
video ufficiali a supporto del singolo Mr. Jones, una canzone epocale, la
formazione rientra nel pieno della tradizione. Oltre all’ugola d’oro
(tormentata, letteraria ed evocativa) di Adam Duritz, ci sono le chitarre di
Dan Vickrey e David Bryson, il basso di Matt Malley, l’organo di Charlie
Gillingham (vero motore della band) e Steve Bowman alla batteria. Un disco che
sembra uscito da un canzoniere americano, pieno di storie e di suoni già conosciuti,
influenzati dalla produzione vintage di T-Bone Burnett.
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Counting Crows |
Da quel disco il rock americano è tornato nelle orecchie
degli appassionati e nelle classifiche di vendita, anche se qualcuno di
entusiasticamente retrò in circolazione già c’era.
Luogo: Atlanta, nella torrida Georgia, campi di cotone e
foreste. Nel 1990 una band di personaggi dai capelli lunghi, dalle chitarre
vintage e dall’aspetto seventies danno alle stampe un disco d’altri tempi, a
cavallo tra gli Allman Brothers e gli Stones.
Nome: Black
Crowes. Titolo: Shake your money maker. Curiosamente, anche loro
ufficialmente figurano in cinque, ma in realtà sin nei primi live e nei video
salgono in sei sul palco, e la formazione è sempre la stessa: voce, due
chitarre, tastiere, basso e batteria. Il disco è una bomba, molto più blues
oriented dell’esordio dei Counting Crows ma altrettanto evocativo. Le canzoni
sono cristalline, diamanti grezzi con chorus potenti ed una voce, quella di
Chris Robinson, che così bella non si sentiva dai tempi di Robert Plant, se
possibile con qualche sfumatura in più.
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The Black Crowes |
1996, San Francisco. Jakob Dylan porta un cognome troppo
invadente per il music business, anche se il disco di esordio dei suoi
Wallflowers è di una bellezza gentile, ma non riesce a piazzare nessuna canzone
sopra la media, e la casa discografia li ha già scaricati. Gli Wallflowers
(questo il nome della band) hanno però una serie di canzoni valide per le mani
e per trovare il suono giusto chiedono a T-Bone Burnett, sempre lui, di sedersi
dietro la consolle. D’altronde, condividono con i Counting Crows non solo la
città, ma anche il suono, la concezione musicale, le ispirazioni (per Adam
Duritz Bob Dylan è la prima fonte a cui ispirarsi, per Jakob è il padre…). Bringing
down the horse diventa un successo inatteso, ma logico se si pensa alla
perfezione delle canzoni. I fattori di questa bellezza sono la tecnica di Rami
Jaffee all’organo (sempre presente in primo piano), la chitarra solista di
Michael Ward (vero e proprio specialista del genere) e le liriche di Dylan,
profonde e narrative.
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Wallflowers |
A fare da padre ed ispirazione a queste band c’è anche un
tizio dalla Florida, Tom Petty, che
calca le scene dagli anni ’70, e che negli anni ha affinato il suo sound verso
un ritorno alla tradizione grazie alla macchina da guerra che lo accompagna sui
palchi e nei dischi: i grandissimi Heartbreakers. Dentro gli Heartbreakers
versione recente ci sono alcuni tra i più grandi musicisti americani, in
particolare Mike Campbell alla chitarra solista, Benmont Tench alle tastiere e Steve
Ferrone alla batteria. Per essere chiari, Benmont Tench ha suonato per Bob
Dylan, Don Henley (Eagles), Sheryl Crow e Stevie Nicks (per dirne alcuni dei
tanti).
Con Full Moon Fever in particolare Tom Petty pesca a
piene mani nella tradizione, con un lotto di canzoni tutte sopra la media. Free
Fallin’, I won’t back down e soprattutto Love is a long road Petty
assesta un terzetto micidiale proprio all’inizio del disco, creando un classico
moderno.
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