mercoledì 26 novembre 2014

La nostra line up

In questo ultimo periodo all'interno degli Americana abbiamo avuto un avvicendamento. Dunque, dopo aver ringraziato Roberto Petrini che ci ha accompagnato in questi due anni dietro le pelli della batteria, è il momento di introdurre nel gruppo Luca Agostinelli.

Luca è nato e vive a Fabriano ed è un batterista di professione. E' il più giovane degli Americana (25 anni) ed è subito entrato nella band portando entusiasmo e vitalità.

Gli Americana sono:

Gabriele Bernacconi. voce
Gian Maria Ricci. chitarra
Alessandro Raggi. chitarra
Mario Chinni. tastiere
Luca Perini. basso
Luca Agostinelli. batteria

Americana, since 2012

lunedì 10 novembre 2014

Americana Live @ Golden Cadillac opening for Rigo's Live


Ore 19.00 L’arrivo al Golden Cadillac non è dei più agevoli, in quanto il locale è situato alla sommità di una salita in pieno centro storico terribilmente conosciuta dagli Jesini con il toponimo di “Scale della Morte”. Lasciamo ad ognuno di voi la propria interpretazione.

Il locale sa di live club, merce rara dalle nostre parti. Di solito ci troviamo di fronte una porta di legno ed un pub vuoto a tre ore dal concerto. Invece il locale ha già le luci soffuse del live act e qualche cliente. L’impatto è subito senza filtri: a sinistra della porta di entrata la fisicità di Righetti non lascia spazio ad interpretazioni. Eccolo il bassista che tanto ammiriamo, con un curriculum di tutto rispetto ed un profondo amore per quel sound che ci pervade le vene. Ci presentiamo, scherziamo e ci prendiamo un po’ in giro e conosciamo anche Tommaso Graziani e Frank Ricci, che accompagneranno il Rigo nella sua performance. Musicisti di tutto rispetto e dal talento enorme. Proseguiamo nel nostro lavoro di montaggio del set live, con l’idea che si, stavolta bisogna tirare fuori il 101%, perché per non vivacchiare in questo mondo di musicisti in cerca di un palco sempre più grande bisogna sfruttare il momento.

Ore 20.00  Miracolosamente e senza nessun intralcio il set è pronto. La regola in queste situazioni vuole che la Band del cartellone faccia per prima il soundcheck per poi lasciare il posto a noi, special guest o opening act come si suol dire. Il Rigo’s Trio, già solamente imbracciando gli strumenti dimostra di essere di un pianeta distante. Il muro del suono, nonostante siano solo in tre, è imponente e non c’è soluzione di continuità nel flusso di note. Frank Ricci ed Antonio Righetti utilizzano i nostri amplificatori, mentre Graziani ha portato la sua bellissima Gretsch di un verde acqua tenue, con una cassa registrata su un suono al limite della goduria. I volumi sono alti, eppure non si ha l’impressione dell’eccesso. Sono una macchina da corsa che più raggiunge il limite più crea vibrazioni. Un paio di pezzi (All I really want is you è stupenda già dal primo ascolto) e poi tocca a noi.
Ci siamo schierati sul palco con il consueto schema, anche se per la conformazione della zona palco stavolta Mario e le sue tastiere traslocano accanto alla chitarra di Alessandro. Per il resto tutto come da copione: Roberto e la sua batteria al centro, alla sua sinistra la chitarra di Gian Maria e poco più avanti il basso di Luca. Avanti a tutti, quasi ad infrangere le onde, Gabriele. La prima regola, se si passa da un trio ad un sestetto come il nostro, è quello di regolare finemente i volumi. L'Orange di Alessandro nel quale prima Frank Ricci si era esibito in prova passa da un master volume di 9 ad un 1,5. Il rock americano della tradizione suonato in sei vuole che ci sia spazio per tutti, soprattutto per i cori che sostengono Gabriele nei poderosi ritornelli. Il suono è ottimo, i muri spessi del locale rimandano le note senza alcuna distorsione, si sentono anche le finezze, spesso impercettibili se non in sala prove. Proviamo quasi cinque pezzi, vogliamo essere sicuri che ogni particolare sia al suo posto. Alla quinta canzone il soundcheck può dirsi concluso.
Ore 21.00 Mentre consumiamo la cena offerta dal locale scambiamo due parole con Righetti, ed il Rigo non delude le aspettative. E' un rocker sanguigno e preparato, e soprattutto la sua esperienza gli permette di raccontarci un paio di aneddoti che ci fanno sognare. In particolare il racconto della registrazione ai Southern Tracks Studios di Atlanta con Brendan O'Brien e Nick Didia dietro la consolle ci fa quasi svenire: in quegli studi hanno visto la luce tutti i dischi dei Black Crowes, gran parte di quelli dei Pearl Jam, senza contare l'ultimo Springsteen. E poi discutiamo a ruota libera di Rolling Stones e John "Cougar" Mellencamp, oltre naturalmente alla prossima reunion dei suoi Rocking Chairs. Tutti nomi che mettono la pelle d'oca, ma noi siamo qui per dire la nostra e ci prepariamo.
Ore 22.30 La scaletta prevista per la serata prevede 11 pezzi. In sede di preparazione abbiamo studiato il miglior set possibile, e per una sera abbiamo deciso di lasciar da parte i libri, puntando tutto sulla musica. Le 11 canzoni non lasciano spazio a nessuna pausa, dovremmo suonarle di seguito senza pressoché alcuna sosta se vogliamo stare nei tempi previsti.

Alle prime note di Love is a long road il pubblico è ancora fuori il locale, ma già qualcuno entra. Tom Petty all'inizio di una performance è una dichiarazione di intenti: o entri o vai via.
Quando la prima scorre facile, gran parte della serata è andata. La nostra amata Wide awake riesce anche meglio del solito perché l'acustica è ottima e l'adrenalina è salita alle stelle. Righetti & C. ci seguono con attenzione, il Kentucky dei Dirty Guv'nash è dietro l'angolo. Qualcuno del pubblico ordina un whisky, l'atmosfera è quella giusta.
I Won't back down la suoniamo con l'accelleratore premuto bene fino in fondo, quasi una urgenza. Fatta così veloce assomiglia alla versione che il grande Tom ed i suoi Heartbreakers hanno proposto l'indomani dell'11 Settembre al canale nazionale americano, con le candele intorno e con la voglia di inneggiare alla rinascita. Bene così. 
Abbiamo piazzato in questa orgia di chitarre due pezzi di grande riflessione: Round Here e Descending. La prima crea il solito silenzio nel locale e noi religiosamente accompagniamo Gabriele in questa specie di messa cantata, un rito collettivo di grande impatto nel quale ognuno è chiamato a chiudere gli occhi e pensare alla sua vita. La seconda è uno slide blues - rock di proporzioni epiche, in cui l'aria torbida di Atlanta (ancora...) invade il Golden Cadillac.

L'unico gruppo che ancora non abbiamo toccato, i nostri amati Wallflowers, ce li teniamo per il finale. La motivazione è duplice. Il pezzo, The difference, è bello tirato e ci permette di sfogare tutta la passione in un concentrato emotivo di appena 4 minuti. Inoltre, la band è capitanata da Jakob Dylan, figlio di Bob, ed oltre a servirci per rimarcare da dove veniamo, è il miglior assist possibile per Rigo. Le nostre radici sono simili. 

All'ultima nota di The difference scopriamo di essere in tanti nella sala, e tutti gli occhi sono fissati sulla nostra performance, cinquanta minuti scarsi nei quali abbiamo dato il meglio di noi stessi. Il sudore ha passato il cotone delle t-shirt e si stampa sulle chitarre e sul basso come un'impronta di vapore. Ci siamo e questo è solo l'inizio.

Ore 23.30 La Rigo's Band sale sul palco ed apre la performance con uno strumentale nuovo di zecca "L'abbiamo provato per la prima volta.....ieri sera!" introduce Rigo. Le sensazioni provate nel soundcheck se possibile sono ancora più amplificate. Il groove è forte ed anche nei passaggi più pop il trio ha un approccio rock che sferza la pelle. Pur mantenendo dunque una forte coerenza di suono, i tre spaziano sino al blues più puro (bellissima la cover di Robert Johnson, pura improvvisazione). Tantissimo arrosto e poco fumo insomma, per una serata all'insegna del rock a stelle e strisce. 

A conti fatti, se c'era qualcosa che volevamo trasmettere facendo da opening band il risultato è stato ottenuto. Il nostro discorso intorno al rock tradizionale americano si sta allargando a nuove platee ed è soprattutto il pubblico a rispondere positivamente. 

Grazie al Golden Cadillac. Grazie a Rigo. 
A questo punto, il grazie più grande  a Bob, che ha permesso tutto questo. 

Americana, since 2012 



venerdì 7 novembre 2014

Past, present, future. Da chi traiamo ispirazione


Rock americano? Sterminato, infinito. American Traditional Rock? Beh, insomma, parliamone….
Potrebbe iniziare così un dialogo tra appassionati di musica o anche tra musicisti. Del rock americano sappiamo tutto, una miriade di band più o meno famose, un incontro quasi folle di generi e di stili. Se però si chiede cosa è l’American Traditional Rock la nebbia si fa più spessa. Si dirà: “è il rock americano della tradizione”…Lost in translation, risponderemmo noi degli Americana, citando un film che ci è rimasto nel cuore (anche se ambientato a Tokyo).

Tradizione d’altronde ha tanti significati. Può sembrare un termine che rimanda allo stantìo, al vecchio, oppure è un valore aggiunto, un ritorno alle origini. Facciamo chiarezza, se possibile, partendo dalle origini.
La storia della Svolta di Bob Dylan è abbastanza conosciuta. Il buon Bob nasce come folkman, chitarra acustica in braccio e storie  cantate di 3 o 4 minuti, piccoli romanzi fatti canzone. Un talento cristallino, una profondità devastante, un simbolo vivente già fin dai primi dischi. E’ il 1965, e cinque giorni prima di salire sul palco Newport Folk Festival, Dylan da alle stampe Like a rolling stone, un brano bellissimo ed inequivocabilmente elettrico. La leggenda vuole che, nel proporre il suo set dal vivo, Dylan si presenti con una scaletta totalmente elettrica, ricevendo una bordata di fischi ed insulti dal pubblico arrivato invece per adorare il suo menestrello folk. Oggi grazie a numerose testimonianze si è potuto fare chiarezza sull’episodio e scoprire così che i fischi furono al termine dell’esibizione per chiedere a gran voce di tornare sul palco.

Bob Dylan & the Band


In ogni caso, quale che sia la versione, il Rock americano della tradizione nasce da lì. Successivamente Bob utilizzerà quale backing band un’arma da guerra infallibile e talentuosa, The Band: era il 1966. A comporne la line up erano musicisti quali Robbie Robertson (voce e chitarra), il leggendario Levon Helm alla batteria, Rick Danko al basso e Garth Hudson come multistrumentista. Nasce un genere, ed è irrinunciabile andarsi a riascoltare The last waltz, disco registrato senza Dylan ma pieno di ispirazione, per capire di cosa stiamo parlando.

Non c’è bisogno di dire che Dylan è stato il padre e l’ispiratore di un intero filone musicale. Volendo estrapolare alcuni nomi vengono in mente i Greateful Dead e The Allman Brothers Band, nomi di spicco del rock americano, band che in un modo o nell’altro hanno avuto un’onda lunga sino alla fine degli anni ’80.
Poi sono arrivati i Counting Crows. Era il 14 Settembre del 1993 quando sugli scaffali dei negozi di dischi americani trova posto August and everything after. I ragazzi pagano tutto il tributo alla tradizione, mettendo in primi piano i propri riferimenti: Dylan, i Greateful Dead ed i Byrds su tutti. Si presentano in cinque, ma già dai primi live e nei primi video ufficiali a supporto del singolo Mr. Jones, una canzone epocale, la formazione rientra nel pieno della tradizione. Oltre all’ugola d’oro (tormentata, letteraria ed evocativa) di Adam Duritz, ci sono le chitarre di Dan Vickrey e David Bryson, il basso di Matt Malley, l’organo di Charlie Gillingham (vero motore della band) e Steve Bowman alla batteria. Un disco che sembra uscito da un canzoniere americano, pieno di storie e di suoni già conosciuti, influenzati dalla produzione vintage di T-Bone Burnett.

Counting Crows


Da quel disco il rock americano è tornato nelle orecchie degli appassionati e nelle classifiche di vendita, anche se qualcuno di entusiasticamente retrò in circolazione già c’era.
Luogo: Atlanta, nella torrida Georgia, campi di cotone e foreste. Nel 1990 una band di personaggi dai capelli lunghi, dalle chitarre vintage e dall’aspetto seventies danno alle stampe un disco d’altri tempi, a cavallo tra gli Allman Brothers e gli Stones.
Nome: Black Crowes. Titolo: Shake your money maker. Curiosamente, anche loro ufficialmente figurano in cinque, ma in realtà sin nei primi live e nei video salgono in sei sul palco, e la formazione è sempre la stessa: voce, due chitarre, tastiere, basso e batteria. Il disco è una bomba, molto più blues oriented dell’esordio dei Counting Crows ma altrettanto evocativo. Le canzoni sono cristalline, diamanti grezzi con chorus potenti ed una voce, quella di Chris Robinson, che così bella non si sentiva dai tempi di Robert Plant, se possibile con qualche sfumatura in più.

The Black Crowes


1996, San Francisco. Jakob Dylan porta un cognome troppo invadente per il music business, anche se il disco di esordio dei suoi Wallflowers è di una bellezza gentile, ma non riesce a piazzare nessuna canzone sopra la media, e la casa discografia li ha già scaricati. Gli Wallflowers (questo il nome della band) hanno però una serie di canzoni valide per le mani e per trovare il suono giusto chiedono a T-Bone Burnett, sempre lui, di sedersi dietro la consolle. D’altronde, condividono con i Counting Crows non solo la città, ma anche il suono, la concezione musicale, le ispirazioni (per Adam Duritz Bob Dylan è la prima fonte a cui ispirarsi, per Jakob è il padre…). Bringing down the horse diventa un successo inatteso, ma logico se si pensa alla perfezione delle canzoni. I fattori di questa bellezza sono la tecnica di Rami Jaffee all’organo (sempre presente in primo piano), la chitarra solista di Michael Ward (vero e proprio specialista del genere) e le liriche di Dylan, profonde e narrative.



Wallflowers


A fare da padre ed ispirazione a queste band c’è anche un tizio dalla Florida, Tom Petty,  che calca le scene dagli anni ’70, e che negli anni ha affinato il suo sound verso un ritorno alla tradizione grazie alla macchina da guerra che lo accompagna sui palchi e nei dischi: i grandissimi Heartbreakers. Dentro gli Heartbreakers versione recente ci sono alcuni tra i più grandi musicisti americani, in particolare Mike Campbell alla chitarra solista, Benmont Tench alle tastiere e Steve Ferrone alla batteria. Per essere chiari, Benmont Tench ha suonato per Bob Dylan, Don Henley (Eagles), Sheryl Crow e Stevie Nicks (per dirne alcuni dei tanti).    
Con Full Moon Fever in particolare Tom Petty pesca a piene mani nella tradizione, con un lotto di canzoni tutte sopra la media. Free Fallin’, I won’t back down e soprattutto Love is a long road Petty assesta un terzetto micidiale proprio all’inizio del disco, creando un classico moderno.

Americana, since 2012

lunedì 3 novembre 2014

Cosa succede il 7 Novembre

Non è facilissimo trovare dei riferimenti in Italia per una band di appassionati di tipiche sonorità rock americane. Mentre nel nord Europa l'influsso del rock a stelle e strisce ha sfornato seguaci in tutte le salse, da noi l'idea del suono americano è travisata e soprattutto manca di esponenti in alte quote.

D'altronde, lo sappiamo, non è facile definire un suono e un genere, perchè è il rock è fatto per sfuggire ai canoni rigidi. In ogni caso, c'è un grande fil rouge  che dalla Band di Bob Dylan in poi ha creato un sound che è bello presente e riconoscibile nelle nostre orecchie.

A pensarci bene però, qualcuno che ha portato il rock americano dalle nostre parti c'è, e torniamo indietro con la memoria di qualche anno. Stiamo parlando dei Rocking Chairs, seminale band del modenese che alla fine degli anni '80 ha portato "quel" sound in Italia. I nomi dei componenti dicono molto del rock italiano di questi ultimi venti anni. Graziano Romani alla voce, Mel Previte e Giorgio Buttazzo alle chitarre, Antonio Righetti al basso, Franco Borghi alle tastiere e Robby pellati alla batteria sono nomi che dicono tanto. In particolare il trio Previte-Pellati-Righetti per molti anni ha rappresentato la "Banda" del Liga.

Siamo sinceri. Se c'è un disco in Italia che abbia mai suonato dannatamente americano, quello è Buon compleanno, Elvis! di Ligabue. Andatevelo a riascoltare, gli elementi ci sono tutti: il rock, la melodia, la formazione (a sei elementi, ovviamente), i suoni. Solo che il cantato in italiano (o meglio, l'emiliano) rendevano il tutto così tricolore. Ma il suono era quello, grazie naturalmente al trio dei Rocking Chairs.

E allora ci suona emozionante esibirci il 7 Novembre al Golden Cadillac di Jesi ed aprire il concerto al power trio con il quale attualmente Antonio "Rigo" Righetti gira lo stivale. Stiamo pagando il nostro tributo, probabilmente.

Inizia il countdown.

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